La Storia di Carla – Una Principessa alla EA7 Milano Marathon
Il mio nome è Carla Primo.
Negli ultimi 5 anni mi sono ammalata due volte di cancro.
La prima volta, cinque anni fa, mi è stato diagnosticato un tumore al seno. Sono stata operata, ho fatto un ciclo di radioterapia e poi ho iniziato con la terapia farmacologica conclusasi da pochi mesi.
Pensavo di avere già affrontato la prova più importante della mia vita quando nel novembre del 2015 notai un neo sospetto sulla scapola sinistra, feci un controllo, un istologico e un colloquio con un oncologo: “è un brutto melanoma”, mi disse. “faremo tutto il possibile, ma è già in stato molto avanzato”.
Non potevo crederci, il cancro era tornato a trovarmi e senza avere nulla a che fare con il precedente. Insistetti con i medici per capire se c’era una connessione tra le due malattie (mi avrebbe aiutato a farmene una ragione) e la risposta fu fin da subito definitiva: no, non vi era alcun legame, si trattava di un caso. Un caso sfortunato.
Quel tragico venerdì mattina di fine novembre, il mondo mi crollò addosso un’altra volta e in modo ancora più forte.
Finalmente avevo trovato un compagno meraviglioso, Carlo, con cui condividere la mia vita, mi ero sposata da solo un anno, ero follemente innamorata, stavo bene nonostante la terapia ormonale per la cura del cancro al seno e avevo ripreso a correre con regolarità.
Avevo anche cambiato casa, città e società sportiva.
Mi era stata regalata la possibilità di conoscere persone nuove, meravigliose, con cui correre e trascorrere momenti di svago e di amicizia.
Insomma sembrava che tutto sommato la vita fosse tornata a volermi bene. Così l’impatto con il secondo cancro mi parve una forte ingiustizia, eppure non ebbi scelta.
Non sapevo neppure quanto tempo avevo a disposizione, ero triste per mio marito, mi sentivo in colpa, mi sarebbe spiaciuto anche lasciare troppo presto questa vita che non era stata così generosa nei miei confronti.
Furono giorni terribili, di angoscia e di sconforto, poi iniziarono gli interventi in ospedale e le cure.
Con Carlo decidemmo di goderci ogni istante delle singole giornate. La nostra promessa fu di trovare in ogni giornata qualcosa di bello, da una passeggiata lungo il fiume a una cena piacevole, da una mostra a un buon bicchiere di vino.
L’attesa degli esiti più importanti fu una delle prove più difficili che dovemmo affrontare.
A un certo punto sembrava che tutto stesse precipitando per il peggio, poi dopo il secondo intervento e il secondo importante istologico arrivò una buona notizia: il cancro non si era esteso fino agli organi vitali, ma solo ai linfonodi ascellari.
Quel giorno piangemmo per la gioia, una piccola gioia che precedeva un lungo periodo di controlli, cure massacranti e paure, ma fu un punto di partenza. Ero ufficialmente una malata oncologica, ma forse avevo margine per combattere ancora. Decisi di provarci, di ricominciare, anche con qualche difficoltà, di ripartire da ciò che mi faceva star bene. Dalla corsa, dagli amici.
Non volevo identificarmi con la malattia, non mi rappresentava.
Isolarmi, stare chiusa in casa, sarebbe stato peggio. Amavo Carlo più di ogni altra cosa e volevo combattere anche per lui. E poi rimaneva una questione aperta: il tempo a disposizione. Quanto potevo averne?
Mi rimossero 17 linfonodi nell’ascella sinistra e dopo meno di una settimana, con il drenaggio piantato nella schiena iniziai a camminare tantissimo, tutti i giorni, lungo il mio fiume, lungo il Po. Incontravo gli amici che percorrevano chilometri di corsa e io invece camminavo con un braccio semi paralizzato.
Mi incoraggiavano, si commuovevano nel vedermi così e io a mia volta li sostenevo nei loro allenamenti e mi facevo raccontare di gare e traguardi raggiunti.
Non mi arresi e appena tolto il drenaggio iniziai a correre anch’io.
Prima piano piano, poi un po’ più veloce. Mi iscrissi in quel periodo anche a una mezza maratona, un gesto simbolico ma importante per me.
Arrivò anche il giorno dell’inizio della terapia con interferone. Mi aspettavano 40 giorni consecutivi in ospedale e 11 mesi di terapia a casa. In ospedale mi sottoponevo a circa quattro ore di flebo tutti i giorni, mentre a casa, a giorni alterni, un’iniezione di interferone mi generava nausea e febbre che cercavo di combattere con tachipirina e riposo.
Nei giorni in cui non dovevo fare la terapia andavo a correre al parco, con gli amici, mi sentivo le gambe pesantissime, eppure ogni volta tornavo a casa con un’energia nuova, una fiducia maggiore, anche la nausea sembrava scomparire. Avevo stilato un calendario di gare e mi allenavo per quelle.
Mi faceva sentire normale e mi permetteva di concentrarmi su traguardi diversi dalla guarigione.
Solo in quelle ore di corsa mi sentivo di nuovo Carla Primo, senza malattia.
Avevo davanti tantissimi mesi di cure, non sapevo cosa fare. Decisi di far finta di nulla, di infilarmi le scarpe da corsa e un pettorale di gara il prima possibile.
Quello che la corsa mi restituiva era troppo prezioso per rinunciarci nonostante le mie precarie condizioni di salute. Ne parlai con i medici che mi incoraggiarono a fare semplicemente quello che mi sentivo di fare. Nessuna controindicazione importante.
La corsa mi faceva sentire viva, mi rilassava, mi permetteva di sciogliere i nodi mentali che si insidiavano nella mia testa, mi faceva tornare bambina, entusiasta e carica di energie.
Era in grado inoltre di tracciare un buon metodo per affrontare le difficili prove che mi aspettavano nei mesi successivi. Non solo la terapia, ma i controlli, le visite, i tubi della tac e i liquidi a contrasto. Avevo bisogno di una modalità, una disciplina per non perdermi.
La corsa mi suggeriva qualcosa di simile. Un passo dietro l’altro, fiducia e impegno, piccoli traguardi da raggiungere, tanta fatica condivisa, dialogo costante con il mio corpo e il mio umore. Controllo delle mie sensazioni.
Sì, nella corsa avrei trovato un grande supporto, mi avrebbe ispirata più di altre soluzioni. La conoscevo da quando ero piccola, grazie a mio papà che mi portò alla prima corsa campestre all’età di sei anni, poi la odiai per anni, la rifiutai, la derisi, fino a quando mi avvicinai a essa in un periodo difficile della mia vita.
Tornai a correre dopo il primo tumore, pensando che dovevo ricominciare da qualcosa che sapevo fare sin da piccola. Che tutti dicevano che faceva un gran bene. Che mi veniva facile.
Ora ero di nuovo di fronte a un nuovo inizio e non avevo dubbi: sarei ripartita dalla corsa, sarei tornata presto a indossare un paio di scarpe da running.
Trascorsi così circa un anno di terapia con interferone, tra febbre e nausee, correndo con regolarità. Partecipando a gare corte, lunghe, in staffetta.
Tutto per trovare la forza di lottare, di non arrendermi.
I risultati non erano certo quelli di un tempo, ma ogni volta che andavo a correre tornavo a casa sentendomi meglio. Saliva l’umore, salivano i valori del sangue, i muscoli rispondevano ai movimenti e il sorriso tornava sul mio volto. Carlo, mio marito, e gli amici della corsa, furono fondamentali in questo periodo: senza di loro non ce l’avrei fatta, non avrei portato a termine la terapia. Ne sono certa.
Vissi momenti di grande sconforto ma anche di grande gioia.
La presenza di Carlo sempre al mio fianco, anche durante le corse, e degli amici runner che durante l’anno mi coinvolsero in imprese sportive di ogni genere, mi regalarono forza e fiducia.
La corsa, da quel giorno in cui mi tolsero il drenaggio post operatorio, è per me simbolo di lotta e di speranza.
Mi dona forza, energia e spirito combattivo. È condivisione e ritualità.
Da quando ho iniziato a correre ho detto più volte che appena il mio fisico sarebbe diventato più robusto mi sarebbe piaciuto avventurarmi nella corsa di tutte le corse: la maratona. Poi è arrivato il secondo tumore, più importante, con cure più invasive. E ho messo da parte quel sogno.
Oggi mi sento bene, ho terminato le terapie e la mia situazione di salute sembra stabile. È rimasta la paura, l’incertezza, la percezione di essere appesa a un filo.
La maratona è tanto lunga, così almeno la immagino.
Però credo che rappresenti almeno in parte ciò che ho vissuto. Ripercorrerla simbolicamente potrebbe essere la conclusione di un percorso o l’inizio di un periodo di benessere che francamente non ho idea di quanto possa durare. Potrebbe essere tanto, comunque vada.
Credo che, pur con molta paura, mi piacerebbe provare a correre una maratona, a correre Emporio Armani Milano Marathon.
Una specie di dedica ai cuori che hanno creduto in me: sono grata a tutti loro.
Vorrei provare a correre la maratona anche per dare un po’ di fiducia a chi sta ancora lottando e soprattutto ricordare quelli che hanno combattuto fino in fondo ma non ce l’hanno fatta.
Vorrei provare.
Carla Primo