La Maratona della maturità. Berlin Marathon 2018
Questa maratona, me la sono assaporata.
Ho deciso di correre la Maratona di Berlino il giorno stesso della Maratona di Boston, quattro mesi fa esatti.
Sono molti quelli che tagliano il traguardo di una maratona e immediatamente ne sognano la successiva e la pianificano. Io no.
Io mi do tempo per riflettere, normalmente. Faccio una maratona all’anno e la scelgo con calma e cura.
Questa volta no. Questa volta ho pensato alla Maratona di Berlino non appena ho ripreso l’uso delle gambe dopo quella di Boston. Ho fatto la maratoneta imbruttita sul serio: nemmeno il tempo di pensare alle vacanze che non avrei fatto, al caldo del lunghissimo corso ad agosto, ai sacrifici a venire, che avevo già deciso.
Ho deciso ancora prima di parlare con me stessa: Berlino.
Era l’anno giusto e lo sapevo. Due maratone in un anno. Troppo?
Ma Boston non mi aveva regalato l’emozione della preparazione.
Lo dico sempre: la Maratona è la gioia dell’allenamento, della programmazione, della fatica quotidiana e io, a causa di quel maledetto strappo non l’avevo vissuta ancora come volevo, la “mia” Boston.
Ho scelto di farmi guidare da una coach donna, Marina Zanardi. Non perchè fossi poco soddisfatta prima, ma perchè quando l’ho conosciuta ho capito che doveva essere lei. Il rapporto tra allenatore e allenato è come un matrimonio, ci sono momenti di amore e momenti di odio. Una coach deve non solo allenarti, ma ascoltarti, guidarti, misurarti. Io cercavo una donna che potesse guidarmi malgrado i miei orari sempre difficili, malgrado sia sempre in giro, malgrado aggiunga i chilometri di lavoro a quelli di allenamento. Avevo bisogno di una persona che sapesse ascoltarmi anche senza vedermi. La squadra di corsa è una dimensione splendida, ma per una come me, sempre in viaggio, non era facile.
Marina parla di maratona con la stessa luce negli occhi che ho io, quella luce di chi si suda ogni centimetro, non solo ogni chilometro, quella luce che fa venire le rughe intorno agli occhi e non fa trattenere il sorriso.
Ci siamo allenate per tre lunghi mesi. Dico “ci” perchè so che lei ha vissuto con me ogni uscita, anche se ci separano 400km. Anche se, purtroppo, non ha mai fisicamente corso con me, tranne quella prima, bellissima, mezza maratona di Lugano.
E alla fine, a Berlino, ci sono arrivata.
Stanca, nervosa, tesa. Gli allenamenti erano andati bene, anzi benissimo, ma il timore reverenziale che mi incute questa distanza è incontenibile. Sono molti coloro che guardano ai 42km come se fossero solo una via di mezzo tra la tapasciata e la “ultra”, conferendo ad ogni chilometro successivo un’importanza che vale medaglie al coraggio. In quanti guardano a questi quarantaduemila passi con sufficienza non so dirlo. In quanti pensano che aggiungendo chilometri extra si aggiungano emozioni, invece, so dirlo: troppi.
La Maratona è la Regina. La Maratona è speciale. la Maratona è amore infinito per il limite superato, per la fatica di ogni istante.
La Maratona è la mia sposa. La mia festa.
Il mio momento. Un momento che questa volta è durato 3 ore, 8 minuti e 20 secondi.
Non faccio l’analisi dei parziali, non sono Kipchoge e non ho fatto un “best time” mondiale, ma posso dirvi che sono stati quasi perfetti.
Sono partita serena, rilassata e felice. Di fianco a me c’erano tre amici. Un ragazzo di colore, una guida e una ragazza non vedente. Mentre cercavo di sintonizzare il mio Garmin – senza successo – guardavo i suoi occhi chiusi. E il suo sorriso, che cercava di vedere la folla.
Una parola, un complimento. Io ero sola. Intorno a me 44mila cuori.
I primi dieci chilometri sono volati, tra preoccupazioni e sensazioni. Il GPS continuava a saltare, così l’ho dimenticato.
La stavo aspettando. Aspettavo la crisi, come si aspetta un nemico alla porta. Sapevo che sarebbe arrivata e non vedevo l’ora di parlarle.
E così la crisi è arrivata, al 24esimo chilometro. Troppo presto.
Abbiamo iniziato una trattativa lunga cinque o sei chilometri. Ci siamo parlate ed eravamo solo o e lei. Io e la mia testa, che mi diceva “molla”. Ma era una parte della mia testa, l’altra cercava di calmarla. Al trentesimo ho incontrato Guido. Non so chi sia Guido, non lo spevo in quel momento e non lo so nemmeno ora, ma gli ho chiesto se potevo seguirlo. Lui mi ha risposto “se riesco” e io ho capito che io ci sarei riuscita, perchè io, quel “se” non lo avevo calcolato.
E ho iniziato a pensare “riesco”.
Ho girato l’interruttore della paura in modalità off.
Non ho più pensato a nulla, se non a me. E a tutti quelli che nella mia vita contano. O sono contati.
Ho pensato a Elena che stava seguendo il mio tracking sull’app. A Luisella che di sicuro aveva barattato la sua uscita in bici con la mia telecronaca virtuale.
Ai miei genitori, in crociera, che forse avrebbero preferito non essere in mezzo al mare per potermi vedere.
Alle mie montagne, che questa estate mi hanno scortata nei lunghi. A Marina, tanto a Marina, che aveva creduto in me più di ogni altro. A Giuseppe, che, se oggi non appartiene più al presente, ha sempre una parte del mio pensiero per avermi passato l’amore incondizionato per questa gara.
Ho pensato ad Arianna, Nicole, Romina e Cesco, che non hanno mai nessun dubbio sulla nostra amicizia.
Poi ho pensato a me e basta. A quanto amo ciò che faccio, a quanta forza di volontà ci ho messo, a quanto amo me stessa, a quanto credo in me stessa, tanto da ritrovarmi qui, sola, senza sentirmi mai sola.
Ho pensato che finalmente sono maturata. Finalmente ho il coraggio di essere ciò che sono, anche se questa me stessa non è quella che pensavo sarebbe stata.
Tutti noi da ragazzi ci costruiamo un’immagine di noi. La mia immagine di me non era questa. Era quella della donna in carriera.
Ma questa qui sono io, non la donna in carriera. Io sono la Carlotta di oggi, quella che si intestardisce sulle cose e va a prendersi ciò in cui crede.
Poco tempo fa mi sono trovata a dire una frase che non avevo mai pronunciato: “io so esattamente cosa voglio, non ho dubbi. So cosa voglio e lo scelgo“.
Io ho scelto ogni singolo dettaglio di quello che sono oggi.
Mentre penso a quanto mi voglio bene compare la Porta di Brandeburgo.
Arrivo ridendo, ridendo e piangendo.
Guardo il GPS, segna 3 ore e 8 minuti.
Ho vinto. Ho vinto me stessa, con tutto il coraggio che ci va ad accettare di essere, semplicemente, quello che si è.
Una donna che ha scelto di essere una maratoneta a Berlino, in 3h08’20”.
Un grazie speciale a Ovunque Running che mi ha permesso di essere qui, anche se non mi ero presa per tempo, anche se sono una maratoneta solitaria.