63° Campaccio: il cross dei cross
Da quando partiamo, alle 7 del mattino, dal centro di Torino, mi sto chiedendo chi me lo fa fare. Il Campaccio sarà anche la gara regina dei cross italiani, ma cosa cavolo ci vado a fare, io?
L’appuntamento è prima dell’alba con Mauro e Irma. Ci raggiunge Oliviero che in un impeto di poca sanità mentale ha deciso di correre anche lui questa tortura che chiamano gara di cross.
La verità e che Mauro va a vedere la gara assoluti del pomeriggio e io mi sono aggregata, allettata dall’idea di fare qualche bella foto e, soprattutto, di veder correre alcuni dei miei miti personali nell’atletica, come Sara Dossena, Nadia Batocletti e Yeman Crippa.
La domanda, però, è perchè mai corro anche io proprio il Campaccio?
Facciamo prima una premessa doverosa: io partecipo alla gara Master, al mattino. I cross, sia lodato Dio, si corrono a batterie divise per fasce di età e i master corrono separatamente dagli assoluti. Quindi penso che forse non arriverò ultima.
Detto questo il cross country non è affatto la mia specialità, non lo è mai stata, nemmeno alle scuole medie quando probabilmente era l’unica che ci permettevano di fare.
Io odio correre nei prati fangosi, al freddo invernale, su distanze corte e a ritmi sostenuti. Io soffro di asma da sforzo se l’intensità è troppo alta e improvvisa. Io non ho abbastanza forza nei piedi per saper usare bene le chiodate. Io…
Io ho paura dei cross, cacchio. E proprio per questo ho deciso di correre il Campaccio.
Da un lato penso che avere paura di correre non possa far parte di me, dall’altro sono certa che fare qualcosa che ci terrorizza non possa che farci bene.
Partiamo tutte insieme, noi master donne. In gara ci sono anche gli uomini dal SM55 in sù. Siamo ammassati alla partenza. Parlando con le partecipanti a fianco capisco che molte sono alla loro prima esperienza di cross e non hanno nessuna idea di cosa significhi correre una campestre. Non sanno che si parte sgomitando a mille. Non sanno che nelle curve non si deve rallentare, ma fare perno con i chiodi. Non sanno che in un cross vale tutto e la galanteria muore.
Insomma, non hanno idea che quando la pistola sparerà ci dovremo battere come omaccioni nerboruti per partire.
Cerco di stare a lato e soprattutto cerco di non farmi schiacciare. Già vedo i chiodi delle scarpe del vicino che mi salgono sui piedi e mi prefiguro il peggio.
Per fortuna dopo i primi 500 metri la calca si apre e inizio a correre decentemente.
Il terreno è morbido e le scarpe chiodate, che ho ereditato da Marina e che mi stanno decisamente lunghe, entrano bene nell’erba.
Corro bene, il ritmo è elevato, ma so già che patirò e mi metto il cuore in pace.
Penso che tra poche ore la Dossy correrà proprio dove annaspano i miei piedi ora. Penso alla storia del campaccio. Mi sento onestamente onorata di essere qui.
Provo a sorridere a Mauro e a Irma che mi fanno qualche foto (mio Dio, ho sempre delle facce mostruose nei cross…).
Sto bene, salgo le collinette senza tropo sforzo. Non sto correndo velocissimo, so bene che potrei andare meglio, ma mi concentro a usare i piedi e a superare la vicina, poi l’altra e poi l’altra ancora. Non ho una natura competitiva di mio, ma nei cross mi do il ritmo con chi mi sta di fianco. Gioco.
Il cross insegna la corsa.
A vedere la gara c’è ovviamente anche Daniele Menarini, condirettore di Correre. E’ un piacere parlare con lui, mi racconta sempre qualcosa che non so, che mi fa riflettere.
Finita la mia batteria restiamo a guardare le batterie ragazzi e cadetti. Sono bellissimi da vedere, così giovani e così appassionati, corrono dando il meglio di loro stessi. Si superano con tenacia, provando ad allungare qualche metro, cercando di superare il vicino. Non risparmiano la fatica nemmeno per un secondo e arrivano stremati, prosciugati, alcuni felici di aver fatto bene, altri quasi in lacrime per il modesto risultato, ma tutti ugualmente esausti. Certi, soprattuto le ragazze, sono in preda all nausea causata dalla tanta fatica e si siedono a terra. Hanno dato il meglio e devono esserne comunque fieri perchè non tutti possono certo dire di fare altrettanto, soprattutto nel mondo adulto.
Daniele si autocita ad un tratto, raccontandomi di una sua frase storica:
“Il cross è il latino della corsa”.
Io, che da ragazza ho bazzicato certo più il latino che lo sport, trovo in questa frase la chiave di tutto.
Il cross che educa, che insegna a correre e a faticare, il cross che viene servito ai ragazzi come qualcosa di imprescindibile per la loro vita da atleti. Il cross che regala dei 10 in pagella e che, alle volte, bolla la tua giornata con un deplorevole 4 e 1/2. Il cross che insegna a vincere e a perdere.
Il cross, palestra di vita per ragazzi e adulti.
Mi sento una specie di personaggio epico, per un tratto. Sono contenta di aver corso, ho superato la mia paura, ho imparato qualcosa.
La gara assoluti.
Nel pomeriggio parte la gara, “quella vera”, quella che tutti aspettiamo. Prima i sei chilometri femminili e poi i dieci maschili.
Mi metto sul percorso con Oliviero e scatto foto. Ad ogni passaggio mi emozioni. Donne e uomini che gareggiano a suon di muscoli e fatica. Respiri faticosi, sudore, qualche ginocchio sbucciato, gambe che danno il massimo.
Mi pare di sentire i loro cuori, vorrei intrappolarli nella macchina fotografica.
Penso che pochi sport siano belli come il cross country, altrettanto veri. Nulla qui può essere nascosto, tutto è reale.
Questa è l’atletica che mi fa tremare il cuore.
Grazie Campaccio.