A passo regolare: Aosta-Becca di Nona 2018 – La Gara

Tutti camminatori lo sanno: il segreto per camminare bene in salita è mantenere il passo regolare.

Peccato che L’Aosta-Becca di Nona non sia una camminata, ma una gara di skyrunning.

Ho prenotato il pettorale in questa edizione due anni fa, quando terminai la mia “prima” (puoi leggerne il racconto qui).

L’Aosta-Becca di Nona è una gara storica, nel senso che esiste da sempre, o almeno da quanto tempo io mi ricordi. E forse essendo una martze a pià – denominazione di origine valdostana DOV che identifica le “marce” a passo svelto tradizionali non era altro, in origine, che una di quelle sfide tra maschi alfa “facciamo a chi arriva fin lassù”.

Insomma, facciamola breve, la mia città – che, per chiarezza, è Aosta – si lascia andare in una festa ludico-emozionale per partecipare a questa scarpinata mostruosa di 2500 metri di dislivello, dalla piazza fino in cima alla montagna, la Becca di Nona, 3.142 msl.

Paura.

Arrivo in piazza alle 7.30 del mattino. Piazza Chanoux è invasa dal tendone bianco che ogni estate si materializza per ospitare sagre e fiere che regolarmente perdo. La statua dell’Alpino sotto la quale noi adolescenti ci davamo appuntamento di sabato non riesce a stagliarsi fiera come di solito e si perde dentro la cerata bianca della struttura di americane industriali.

Non ho mai compreso il senso di questo tendone che occupa tutti i centimetri quadrati dell’unica piazza veramente centrale di Aosta. Non ha nulla di bello e forse nemmeno nulla di utile. C’è e basta.

Circumnavigata questa pesante architettura posticcia, ecco, direttamente sotto l’immagine della vetta la partenza.

Se devo essere sincera, ho una gran paura. Mi sento Fantozzi alla Coppa Cobram. Lo skyrunning non è la mia disciplina. Venerdì mi sono esaurita gambe e testa nei 32 chilometri a ritmo del mio secondo lungo per la Maratona di Berlino, ho fatto il mio “lavoro” da maratoneta e sono soddisfatta.

Ora, in mezzo a centinaia di skyrunner preparati mi sento piccola come un elfo.

La sola sensazione che provo è paura.

Io non ho quasi mai paura di correre. Al massimo sono tesa e concentrata, ma non ho paura. Ora invece guardo la vetta di questa montagna la cui immagine ho negli occhi di bambina e tremo. Lassù, a seconda della luce, vedo brillare il bianco della Madonnina.

Start.

Mentre lo speaker grida nel microfono il countdown penso al passo. Devo tenere il passo regolare, come mi hanno insegnato.

Il primo chilometro e mezzo è di avvicinamento e corro. Sento i 32km di venerdì premere tra bicipite femorale e adduttore. Ho il fiato corto, mi faccio superare con serenità. Vedo mio papà che mi ha appena confusa con un’altra concorrente e sta fotografando lei. Rido. In fondo cosa vuoi che sia? E’ una bella scampagnata.

Il passo della salita si fa regolare, il respiro si placa ed entriamo nei borghi di Charvensod.

Vedo Karen con Stella nel passeggino che sono qui per accompagnare Luca che corre molto avanti a me. Me ne infischio del tempo e facciamo una foto noi tre.

La salita si fa pesante e umida, nel bosco di Charvendod. I soliti esagitati del trail superano di lato. Non ho nulla contro di loro, capisco che desiderino correre, ma in qualche modo la loro “gara” non riesce a tangermi.

Mi passano prima Francesco, che è – giustamente – chiuso nella sua concentrazione, e Camilla che sorride come se nulla fosse.

Se questa fosse una 10km i ruoli sarebbero forse inversi. Su strada sono io che mi chiudo in un mondo in cui contano solo il respiro e la fatica.

E’ incredibile come io in montagna non senta il desiderio di competere. Tutta l’aggressività che normalmente ho nelle gare su strada, la concentrazione, il desiderio di andare un secondo più veloce, nel momento in cui le suole toccano la terra dei sentieri, evaporano.

Il bosco.

Salgo senza interruzioni, senza modificare la cadenza del passo. La mia falcata è corta e frequente, cadenzata. Non desidero faticare.

Il bosco non mi piace. Io prediligo quella montagna desolata, afflitta, decadente. Amo i paesaggi che si sgretolano. Mentre il bosco pullula e cresce, il suo alito tiepido e umido avvolge i polmoni. Sudo, copiosamente, ma mantengo il passo regolare.

Raccolgo da terra qualche incarto di gel. Non comprendo mai quale pensiero venga alla mente di chi getta i pack degli integratori sul sentiero. Forse pensano che qualcuno poi pulisca? Che è anche vero, qualcuno, poi pulisce. Ma intanto la natura viene violata.

Lentamente il bosco si apre. Lentamente, troppo lentamente. Dapprima l’incantevole passaggio sul Ru riporta delicatamente le gambe alla corsa. Poi la poderale, brulla e noiosa, poi finalmente si apre l’orizzonte, ed ecco l’alpeggio forse più bella della Val D’Aosta.

Comboè e la Vetta.

Comboè è una valle incantata. Leggera nel senso che alleggerisce. Cuore, anima e gambe. Questo è il primo traguardo, quello della gara “corta” che in 10km e 1500m D+ ti fa apprezzare il giusto mezzo. Non troppo dura, non troppo semplice.

Fermarsi qui, però, è fuori discussione.

L’idea è quella di “arrivare in vetta”, altrimenti avrei fatto una gara diversa.

Ora arriva il bello. Il bello vero.

Ora arriva l’alta montagna.

In questo tratto mi esalto sempre. Anche due anni fa lo avevo amato. Per prima cosa perchè finalmente cessa l’umidità e l’aria si fa frizzante. In secondo luogo perchè in queste salite il mio passo regolare rende meglio e supero un sacco di gente. Siamo io ed una signora che a giudicare dal viso deve avere una ventina d’anni più di me. Usiamo il nostro passo corto, incessante e leggero per salire come ci hanno insegnato “i vecchi”. A passo regolare.

Passiamo il nevaio leggere. Qualche omaccione con il ventre non troppo atletico on è del tutto d’accordo a farci superare. Io domando sempre di passare e scelgo punti senza pericoli, ma non sempre vengo presa per il verso giusto. Purtroppo, però, ho bisogno di mantenere questa misura nel passo e devo avanzare. Molto spesso mi trovo a pensare che semplicemente non amino essere sorpassati da una donna.

In ogni caso non me ne preoccupo.

La vetta si fa vicina, vedo la Madonna che dal basso sberluccicava minuscola. Ora è alta più di due metri.

3h24min e una quarantina di secondi.

Ho messo 5 minuti meno del 2016, non sono per nulla stanca e in cima ad aspettarmi espressioni e braccia confortanti mi levano ogni dubbio: ne vale la pena.

Vale la pena di salire, sempre.

Da quassù tutto sembra molto più ovvio.

Riesco persino a capire me stessa.


Organizzazione come sempre allegra e ben gestita. Un abbraccio a Laurent Chuc e agli organizzatori che mi hanno riservato il pettorale 7 come volevo io e che mi fanno vivere ogni due anni questa bellissima esperienza.

Ci vediamo nel 2020.

RunningCharlotte
RunningCharlotte
Perché la corsa è uno stile di vita e ad ogni passo ci fa crescere un po’ e perché non bisogna essere campioni per correre, basta mettere un passo dietro l’altro. Keep in running.
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