Verso la Boston Marathon – Amo correre anche quando lo odio
Ieri ho fatto il mio primo 30km per la Boston Marathon.
Ricordo che un tempo quando dovevo fare il 30 era una giornata da segnare sul calendario. Oggi è normale. Oddio, normale no, ma fa parte del decorso di un maratoneta.
Il primo 30km.
Siamo partiti tardi, per limitare gli effetti del freddo invernale sulle gambe.
Siamo partiti forte. Troppo.
Incredibile come quando nel gruppo ci siano due o tre uomini in testa, questi inspiegabilmente si sentano in gara. Beppe ed Ale giocano ad andare forte. Sono forti. Loro.
Io e Fede dietro mettiamo il freno a mano, o almeno ci proviamo. Sento le gambe rigide e, cosa che succede raramente, inizio ad aver paura. In testa un susseguirsi di pensieri negativi che fanno a cazzotti con il ronzare che inizio a sentire nelle orecchie.
Sento il lavoro, lungo e duro, di venerdì mordermi ancora i polpacci, le caviglie rigide, i tendini tesi. Sogno il tè caldo che mi aspetta nel thermos lasciato dopo i primi 15 km e pregusto il sapore dolce del troppo zucchero.
Il metodo migliore per chetare i pensieri crudeli che il mio cervello sta ideando per far crollare le gambe è rallentare leggermente e chiudermi nel pensare alla tecnica di corsa. Parto sempre dalle dita dei piedi. Le sento piegarsi e spingere. Poi le caviglie, che cerco di lasciare morbide. Le ginocchia che si sollevano faticosamente. Alzo il bacino, avanzo il petto, testa dritta, sciolgo le spalle, che quando fatico salgono come se avessi delle spalline anni 80.
Riprendo il ritmo, mi isolo e spengo l’interruttore.
Arriviamo al thermos. Il tè ha poco zucchero. Troppo poco, o meglio, quello giusto per un tè all’inglese. Ho bisogno di zucchero. Mi innervosisco. Al parco c’è una gara di canoa e ci costringe a cambiare rotta e a fare lo slalom tra la gente. Non sono concentrata e ho ancora 14km davanti.
Ho paura di non farcela.
Lascio andare Fede e il suo amico avanti. Io ritorno. Mancano ancora 9 km. Non penso a nulla. Mi tranquillizzo e non penso a niente.
Gli ultimi 4 km sono un’agonia.
Torno a casa e mi fermo al bar a chiedere tre bustine di zucchero. Vedo a macchie. Sento le gambe senza forza, si muovono perchè i tendini le tengono insieme.
Salgo, mi siedo al tavolo e mi faccio un tè caldo con tantissimo zucchero. La doccia mi resuscita, ma sono appassita come un tulipano avvizzito.
Ogni movimento è un dolore. Pranzo con un passato di porri e patate e tre uova. Sì, tre uova. Sono tante, forse sarebbe stato meglio un piatto di pasta, ma l’uovo va giù, la pasta no.
Resto a letto tutto il giorno.
Li ho fatti tutti, tutti e trenta. Non un metro in meno. La media è quasi giusta, 4’38” al chilometro.
Quel 30 sul Garmin è bello come un 30 sul libretto universitario di fianco all’esame di Analisi I. L’ho sudato tutto.
Non ho migliorato il mondo, anzi, a dir la verità nessuno se ne è accorto di questi 30 chilometri se non io. Ma io sono consapevole di non aver mollato, di aver stretto i denti. Sono consapevole che la mia testa vale più di quanto si possa credere.
Il mio mondo è migliorato, almeno un pochino dopo questi 30 chilometri.
Trentamila passi verso me stessa.
Amo correre. anche quando lo odio.
Complimenti gran tempo capisco ogni parola ogni dolore ogni “vedo a macchie” anche se il mio limite è molto lontano dal tuo capisco ogni singola sesazione. Ancora complimenti per la grinta e per la forza che ci metti nel condividere.