Boston Marathon – L’Ultimo lungo e la sintesi della felicità
Sono felice. In questo momento scrivo e la sola cosa che penso è che sono felice.
Non sento il male alla gamba, non vedo l’unghia del mignolino sinistro che mi sta dicendo addio, non sono nemmeno preoccupata per questo nuovo doloretto dietro al ginocchio, che imputo al sovraccarico.
Ho corso 30km oggi ad un ritmo che equivale a correre bene.
Non Ero rigida, il bacino alto, la schiena morbida, le gambe elastiche.
Sono partita da casa dei miei, ad Aosta, questa mattina presto, che contando la nuova ora legale era ancora più presto. L’aria aostana mi mette sempre di buonumore, e i primi tre chilometri fino alla ciclabile sono andati via veloci – anche perchè erano in parte in discesa – senza pensieri.
E dire che temevo che quel doloretto dietro al ginocchio mi avrebbe infastidita.
La ciclabile che corre lungo la Dora Baltea è soleggiata, asfaltata e piatta. O meglio, verso est scende leggermente e a risalire è in falsopiano, ma non ha strappi e corre sinuosa lungo il fiume.
Ho sentito le gambe girare. Davanti a me le montagne mi guardavano sudare, saltellando sui piedi.
Le montagne sono lì da sempre.
Mentre correvo pensavo che vicino a questo fiume, che oggi pare un corso d’acqua secondario, passava la Via Francigena e con lei decine, centinaia di migliaia di pellegrini e viandanti.
Pensavo a quanti eserciti hanno attraversato questa valle, quanti mercanti, quanti viaggiatori. Devono aver visto le stesse montagne, uguali a come le stavo vedendo io.
Ho, nella mia mente, eliminato case e palazzi, ho cancellato l’autostrada, le ciminiere della Cogne, ho sostituito capanne agli allevamenti di bestiame.
E mi sono sentita catapultata in un’epoca passata. In un’epoca in cui non c’erano le mie Floatride da mettere ai piedi, e nemmeno l’abbigliamento tecnico e traspirante.
Un’epoca in cui si viaggiava a piedi per giorni interminabili.
Con questi pensieri la fatica si è ridimensionata e ha lasciato spazio ad un respiro calmo e profondo.
Le montagne erano sempre lì.
Al giro di boa il ritorno in lievissima salita mi ha letteralmente spezzato le gambe. Per un attimo mi sono disperata, poi ho nuovamente alzato lo sguardo e lì davanti a me il ghiacciaio del Rutor, candido, mi ha salutata.
Siamo piccoli esseri di fronte a loro, piccoli e fallibili. Corriamo come se vincessimo le Olimpiadi, ci sentiamo importanti e forti. Ma stiamo solo correndo, respirando e correndo.
Tra questi pensieri mi sono calmata.
Ancora sei chilometri, poi cinque, quattro.
Vedo procedere in senso opposto Catherine Bertone. La riconosco dalle calze a compressione, fuxia, e dall’incedere elastico. La saluto e penso che lei, però, alle Olimpiadi ci è stata davvero.
Termino camminando, verso casa, in salita.
Il Garmin segna 30,01 km. Media 4’45”.
Ho ricominciato a correre.
E mi sento benissimo.
Sto recuperando bene, velocemente. Non arriverò al traguardo di Boston nel tempo che avrei voluto probabilmente, ma sto bene, mi sento bene.
Mi sento come un animale che corre, torno a sentirmi come un animale che corre.
Questa è la sintesi della mia felicità.