Da quassù c’è un mondo diverso: gita (annuale) al Mont Fallère
Il Mont Fallère è una di quelle montagne che di montagna hanno il pedigree, ma che di nome non conosce nessuno.
Appena sopra i 3000 metri è un’altitudine considerevole, a patto di non essere messo esattamente in centro al pentagono dei 4000: a sud il Gran Paradiso, a Ovest il Monte Bianco, a nord-est il Grand Combin e a Est prima il Cervino e poi il Monte Rosa.
Così accade che tutte le cime che spuntano lì in mezzo siano in qualche modo schiacciate dalla fama di queste montagne da racconto epico (ci sarebbero poi tutti i 4000 “minori” da citare, che sgomitano tra le liste dei “to do” degli alpinisti, ma non sono abbastanza colta per trascriverli tutti).
A nord di Aosta, leggermente spostato verso ovest, c’è un monte che nemmeno tutti gli Aostani conoscono. Si vede usato il suo nome francofono su molte insegne di esercizi commerciali, però. C’è il vivaio Mont Fallère, il camping Mont Fallère, il centro sportivo, sicuramente il ristorante Mont Fallère. Avevo un’amico che abitava in via Mont Fallère.
Eppure dei tre 3000 – scioglilingua – di Aosta il Mont Fallère è l’unico che non svetta, coperto dalla punta Chaligne e dalla Becca France.
Da quando scoprii questa vetta, in automatico diventò quindi la mia preferita.
E’ il suo carattere nascosto e magico che mi attrae. E ogni anno salire qui è un momento speciale.
Al Mont Fallère si sale tipicamente o da Ville Sur Sarre, frazione Thouraz, o da Vetan. A me “Sarre” piace, forse è il comune che mi piace di più di quelli che abbracciano Aosta. Sarà che è gemellato con La Turbie, un borgo sopra Mentone, in Costa Azzurra, che vanta una vista da nido di aquila e un profumo di macchia mediterranea che ho sempre adorato.
Insomma, io solitamente salgo da Sarre, ma questa volta mi sono fatta portare dagli amici e saliamo da Vetan.
Il sentiero è semplice e agevole e da qualche anno cosparso dalle opere lignee di Siro Viérin, gestore e ideatore del Rifugio Mont Fallère, che accoglie i turisti con un’atmosfera di tempi passati e con il profumo della legna arsa sotto al paiolo della polenta.
Dagli angoli del sentiero sbucano le immagini delle fiabe di Esopo e i personaggi dei racconti dell’infanzia. Il primo che vedo è un tasso, poi un cerbiatto, una tartaruga, un coniglio e ancora un pastore, una lince, un prete assorto in meditazione mentre pochi metri dopo un bambino pesca da un ponte.
Sulla rocca uno stambecco dalle lunghe corna di abete ci guarda salire.
Siamo lenti a causa mia. Mentre Francesco vuole correre, io mi fermo a guardare.
Penso sempre che non ho abbastanza pazienza. Tutto ciò che faccio ha il Garmin incluso, i secondi che ticchettano. Solo la montagna riesce a darmi questa calma così lenta.
La Salita al Monte è bella e facile. I muscoli la sentono entrare ed uscire, ma in montagna mi capita spesso di non percepire la fatica. E’ una sensazione strana. Vero è che non vado veloce e mi prendo il mio tempo, ma è come se il mio cuore fosse un palloncino pieno di elio. Mi tira sù lui, mentre le gambe sono quasi liberate.
La Madonna di vetta arriva senza che me ne accorga. E’ da qualche tempo che non sono serena come oggi. Deve essere questa calma che mi esplode dentro.
Io non sono una persona calma, sono incline alla tragedia di impronta sudista, mi avvolgo nella fatalità e nel karma, cerco sempre di capire anche ciò che comprensibile non è, mi dispero e cerco soluzioni all’insondabile, come se la ragione dovesse fare a pugni con la realtà per farmi sopravvivere.
Io sono una tabella di Excel con le formule che rimandano a fogli inesistenti, un crocevia di sentimenti poco chiari che si scontrano come se fossero su binari fantasma.
Qui no, qui sono perfettamente a mio agio.
Purtroppo dalla vetta non si vede nettamente nessuna vetta Regina. Solo la Grivola osa sbucare, quasi a sfregio dei grandi picchi da copertina che la incorniciano. Con la sua guglia tagliente apre le nubi e si mostra, vanitosa com’è, davanti ai nostri sguardi, mentre la pelle delle gambe rabbrividisce per il vento poco pietoso.
Solitamente su questa vetta amo fermarmi. Una foto di una vita passata mi riporta alla mente un uomo che legge il giornale, mentre il cane nero ai suoi piedi scruta l’orizzonte.
Invece restiamo poco, Francesco, Nadir ed io. E scendiamo passando dalla vetta frastagliata di questa montagna per me magica.
Scendo dalla pietraia con il passo incerto della podista di strada, ma sto così bene che nulla mi toglie la voglia di ridere.
Passati alpeggi, colline erbose e laghetti, ecco il rifugio, annunciato dall’albero delle preghiere tibetane (deve avere un nome tipico che ignoro).
Seduta al tavolo in legno, il tavolo G, cadono davanti a polenta e brossa tutte le mie consuete fisime. Svaniscono i ricordi poco felici e sfuggono le domande senza risposte.
Incredibilmente non mi sento il solito pesce fuor d’acqua. Mi sento in famiglia.
Scendiamo con la pioggia che si addensa sulle cime e ogni volta scendere è un gesto che mi risulta meno ovvio che salire, per le gambe, ma soprattutto per il cuore.