La mia RomaOstia, ovvero la bellezza di non pensare solo a sè

Noi runners siamo brava gente, è vero. Semplici, spesso, felici con poco, gran faticatori, spesso mangiamo anche poco.

Ma sappiamo essere degli egoisti.

Siamo egoisti “sani”, nel senso che non facciamo del male a nessuno, ma siamo così concentrati sul nostro garmin che alle volte perdiamo il contatto con gli altri. Siamo degli imbruttiti, talvolta.

Io penso così intensamente alla MIA gara, che in quei 21 o 42 km non trovo lo spazio per altri pensieri. Ci sono i MIEI piedi, le MIE gambe, il MIO stomaco, il MIO sudore. E quello è il MIO momento.

Quando ho deciso che avrei corso la mia prima RomaOstia pensavo a quei 9 minuti da mettere dopo gli altri 80, per un totale di 1h29′, cioè il mio personal best. Poi – che dire – la forma non è arrivata, una nuova rilassatezza personale che ha minato il mio equilibrio precario con la dieta, i duri allenamenti di trail che mi hanno rallentata e il roseo pensiero del “9” è sfumato.

Preparare un trail mi sta dando pazienza e pazienza ho avuto.

“Pazienza se non lo faccio, pazienza se non corro per il tempo, pazienza…” Mi sono auto-convinta che mi sarei divertita e basta ed effettivamente non è male l’idea.

E così, per la prima volta ho corso la gara di un altro, per un altro. Ho corso per Karen.

Conosco Karen da qualche anno. Fa la blogger, come me e come me è sempre in giro, tra una gara e l’altra, con la differenza che lei ha una bimba e questo complica la sua vita podistica. Mentre io corro ogni giorno, Karen ogni giorno sta con Stella e quando può corre. Abbiamo corso qualche trail insieme, lei decisamente più forte, io con il mood della sperimentatrice.

Quando mi ha detto che avrebbe preparato anche lei la RomaOstia l’idea di accompagnarla è venuta senza sforzarmi. Le avrei fatto da lepre. 1h40′ su 21 km per me è un tempo facile, per lei forse no.

E così, per la prima volta, non ho corso per me.

Non è facile mettersi da parte. Quando vedo i pacers alle gare dedicarsi agli altri, mi chiedo sempre come facciano a correre per loro senza badare a sè. Avrei dovuto guardare il mio GPS battere i tempi di Karen ed essere responsabile della sua velocità.

Avrei dovuto ignorare la mia voglia di accelerare, inevitabile. Avrei dovuto zittire la mia competitività.

Ma la corsa insegna sempre e questa volta mi ha insegnato a scendere dal piedistallo.

Siamo partite facili. Karen aveva paura, si annusava l’agitazione già al telefono. Come conosco quella paura… quanto gliela invidiavo nei minuti prima dello start, lei questo non lo sapeva.

Sono rimasta tranquilla e posata. Non volevo fare foto, non volevo parlare, non volevo si stancasse.

Count down e sparo.

Partiamo. Gestisco la gara di Karen come avrei gestito la mia. Le faccio spazio, Stefano Bestetti di RCS mi aiuta. Cerco di non farmi prendere dall’ansia di uscire dal casino dei primi chilometri.

Karen corre agile, troppo forse. Falcata grande, braccia che spingono. So che vuole fare bene, lo vuole per sè, ma anche per Luca e Stella – compagno e figlia – vuole che siano orgogliosi, sapendo bene che lo sono già, ma non abbastanza bene per non voler mettere la ciliegina sulla torta.

Divido la gara in 3 sezioni da 7 chilometri, come ho sempre fatto per le mie. Il primo segmento è per trovare il ritmo, il secondo per stabilizzarlo e migliorarlo, il terzo per cercare di non morire.

Andiamo bene, filiamo, le copro il vento, come posso, le indico i “treni” da seguire (dicesi treno un gruppetto di podisti che faccia da scudo e traino), ma non ne trovo nessuno stabile.

Il problema di questi ritmi è sempre lo stesso: sono ritmi gestibili in teoria da molti uomini, ma in realtà spesso i “maschietti” si sovrastimano, mentre le donne fanno l’elastico. Dopo anni di maratone so che è fondamentale rimanere costanti e gestirsi, soprattutto quando si tenta qualcosa di nuovo.

Un signore le consiglia a gran voce di risparmiarsi in discesa, ma è un consiglio sbagliato su Karen. Lei è una trail runner e in discesa va che è una bellezza.

In realtà ho paura, più di quanta ne abbia lei. Karen non ha il GPS e non mi chiede nulla. Io le dico solo ogni tanto che abbiamo margine, cosa vera. Ho previsto di fare il primo terzo appena sotto ritmo, il secondo terzo 5 secondi sotto e gli ultimi 7 chilometri di aprire il gas da subito, sapendo che dopo il 17esimo chilometro sarebbe stata a pezzi, ma che con il margine guadagnato avrebbe potuto giocare.

Lei non ha mai fiatato, mai.

Io dentro di me ho iniziato a rendermi conto che ce l’avremmo fatta intorno al tredicesimo. Io mi sentivo benissimo e lei continuava ad avere un passo facile. I chilometri andavano via veloci.

Arrivate al Lido di Ostia ero così contenta che avrei pianto. Gli ultimi 600 metri sono stati fenomenali.

Avessi potuto l’avrei presa in braccio e stretta forte, portandola fino all’arrivo.

Correva e rideva.

Sapevo cosa sentiva, l’ho sentito anche io tante volte.

Luca e Stella erano lì, tutto l’amore della vita di Karen era lì.

Ed io ho avuto il privilegio di farne parte, lì, sotto al gonfiabile della RomaOstia ho potuto assaggiare il sapore dolcissimo della felicità più vera.

All’arrivo Luca non stava nella pelle. Stella rideva vedendo la mamma.

Io avevo il mio Massimo ad aspettarmi.

Sapete quando tutto sembra essere al posto giusto qual è la sensazione?

La risposta è facile: la pace.

Grazie Karen, non avresti potuto regalarmi una RomaOstia più bella.

Leggi qui l’articolo di Karen

 

RunningCharlotte
RunningCharlotte
Perché la corsa è uno stile di vita e ad ogni passo ci fa crescere un po’ e perché non bisogna essere campioni per correre, basta mettere un passo dietro l’altro. Keep in running.
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