Sentire le gambe. Storia di un allenamento andato bene.
Questo non è un periodo facile, per me. Niente di grave, solo il semplice accumularsi di fatica, stratificata tra pochissimo sonno, malanni di stagione, difficoltà tipiche di una mamma non più giovane e il lavoro, sempre più difficile da incastrare. Niente di anomalo, nè irrisolvibile, solo quel peso che non ti fa buttare giù le gambe dal letto senza pensarci la mattina.
Quante volte è successo? A quanti? Tante, a tutti. Ma per me questa è una delle volte peggiori. E la corsa ne risente. Tutto questo affanno riesce a soffiare sulla fiammella del mio amore per questo sport, mentre il corpo si appesantisce con vizi troppo ravvicinati, al sapore di rilassante prosecco.
Sono due settimane che corro senza risultati, solo con grande fatica. E pochissimo desiderio. Lunghe corse obbligate, perché in fondo la forza di volontà non mi manca. Ma il Garmin al polso mostra numeri stanchi, poco soddisfacenti, non abituali.
Avete presente quella sensazione di non impartire più gli ordini giusti ai muscoli? “Ora accelerate, gambe!”. E loro hanno un iniziale input, che dura lo spazio di un’illusione per tornare subito alla lentezza precedente.
Stamane mi sono svegliata esausta, i tendini rigidi, la bocca aperta in sbadigli a intermittenza. Uno sbadiglio, due sorsi di caffè, uno sbadiglio e poi cambia il pannolino di Matteo, uno sbadiglio e scegli la termica giusta per il clima nebbioso e pesante di oggi. Arrivo al parco senza stimoli, con un progressivo davanti che mi fa venire la nausea. Due allenamenti detesto, per motivi diversi. Il fartlek a minuti e il progressivo. Il fartlek perché mi stresso a star dietro ai secondi che girano sull’orologio, da monitorare. Il progressivo perché so che continuerà a peggiorare e a metà sono consapevole che manca la metà più dura.
Ecco che si parte, i primi tre chilometri lenti mi lasciano sorpresa: se io sto dormendo i piedi, le mie gambe sono sveglie. Alla seconda frazione leggermente più veloce mi rendo conto che la forma fisica è ancora lontana e che sarebbe meglio perdere due o tre chili prima della primavera. Ma i piedi sono reattivi. La mia “stiffness” non è un’utopia, esiste. Entro nella frazione in Z3 che sto bene. Faccio fatica, più fatica di quanta ne avrei fatta un mese fa, ma me lo perdono. Ho imparato i questi anni a non fare confronti tra le me di qualche mese prima e la me dell’ora. Cambiano le carte in tavola in ogni periodo di vita. Due mesi fa Matteo andava regolarmente all’asilo, fuori c’era il sole e i 20 gradi che ti scaldano la pelle. Oggi no. Mi perdono e sono fiera di farlo, perché alla fine ogni giorno sono sempre io che esco vestita da corsa, strato dopo strato di abbigliamento invernale. Sono diventata indulgente con me, mi dico che a 40 anni potrei sentirmi arrivata al capolinea e invece continuo a sognare il domani.
Finisco il progressivo completamente esausta. Stupita. Sfinita. Finalmente dopo settimane ho sentito le gambe girare. Non come vorrei. Non perfettamente. Ma giravano ed erano le mie.
Bene così, si guarda avanti e ci si sorride.